Trasparenze di pietra - 9 racconti brevi









KATYA SANNA



TRASPARENZE DI PIETRA







2001




INDICE

LA MANIGLIA D’ORO
IL PAESE SENZA TEMPO
IL BAR
L’ECO COSMICO
L’ARMADIO MAGICO
I PRIGIONIERI
IL SOLE E IL MARE
IL RITORNO A CASA
ENTRO LA TERRA E’ LUCE


Racconti di Katya Sanna
scritti tra il 1988 ed il 1992







LA MANIGLIA D’ORO

Quella notte mi trovavo in cima alla torre più alta, dove ero già stata la mattina precedente.
Una notte splendida, stellata!
Il chiasso del giorno aveva lasciato il posto al silenzio ed ad i pensieri.
Nel cielo lo scintillio delle stelle.
La bella atmosfera fatata venne disturbata dal rumore di passi severi provenienti dalla base della torre.
Guardai giù e mi venne un accidente!
Cinque arcieri proprio in quell’istante schioccarono le loro frecce contro di me.
Feci appena in tempo ad abbassarmi che le sentii passare sulla mia testa.
- E’ lei! - urlarono da giù - Tu arrenditi sei circondata!
Io mi affacciai interdetta e vidi un esercito schierato di tutto punto con tanto di arcieri, arieti e cavalieri. Un delirio!
- Arrenditi non hai scampo! - strillarono
- Non ci penso proprio! - risposi - Di cosa sono colpevole?
- Hai sovvertito le regole, sei una fuori legge!
- Voi siete un branco di pazzi!
A quella mia frase gli arcieri mi spedirono altre frecce.
Era il caso di scappare.
La fuga sembrava fallita sul nascere, perché c’erano soldati dappertutto.
Tentai ugualmente: immagazzinai  una quantità industriale d’aria nei polmoni e mi proiettai in una corsa inverosimile, tra cavalli e frecce che mi inseguivano.
Trovai un nascondiglio per riprendere fiato e per capire da dove erano usciti questi esemplari che mi odiavano tanto da volermi arrestare.
Forse non avevo letto bene la guida del paese, forse era una rappresentazione organizzata dalla Pro-Loco...O forse erano erano davvero dei pazzi scatenati!
O che?
Era tornata la calma. Uscii dal mio rifugio.
Sembrava che li avessi seminati, riuscii a tornare in albergo, ma chi trovai nella mia camera?
Un soldato con tanto di spada puntata contro di me!
- Non è carino entrare nella camera di una signora - dissi
- In nome del Re...
- Quale Re?
- Sei condannata a morte!
Mi prese per un braccio e mi costrinse ad uscire.
Fui immediatamente circondata da altri soldati che mi condussero al castello (nel tribunale, che avevo visitato la mattina stessa...ma da turista!).
Mi piantarono al centro della sala e loro tutti intorno con facce cupissime che mi guardavano malissimo.
Il Re (almeno così pareva) si alzò in piedi e tuonò:
- Chiedi perdono e ti sarà risparmiata la vita.
- Ma vatt’enne! - gli risposi
- Questo è un oltraggio maestà! - gridò uno
A spintoni venni condotta e poi rinchiusa in una cella.
Poco dopo un signore dal fare elegante, vestito con un frac mi venne a trovare:
- Vuole ordinare qualcosa?
- Si - risposi immediatamente - Una poltrona comoda, un letto con il baldacchino, lenzuola di seta, un televisore, libri, CD, tende ricamate, un tappeto e due arazzi - poi - cioccolato caldo, pane tostato, pasticcini assortiti, biscotti, marmellata di ciliegie e credo niente più.
- I pasti le vuole serviti in piatti d’argento o di porcellana?
- Porcellana grazie. Le posate d’argento ed i bicchieri di cristallo, semplici senza decorazioni per favore.
- Bene signora sarà fatto.
In pochi minuti la cella si trasformò in una reggia!
I pasti erano ricchi e ben cucinati: colazione, pranzo, spuntino pomeridiano e cena. Avevo anche un frigorifero.
Credo rimasi là dentro almeno tre giorni.
- La signora si trova bene da noi? - mi chiese l’uomo in frac.
- Altro che, benissimo! Peccato che mi uccidiate, mi dispiace lasciare tutto questo. A quando l’esecuzione?
- Domani all’alba. 
- Manca poco quindi.
- Eh si, desidera altro?
- Un telefono, a volte mi sento un po’ sola.
- Non è possibile.
- Perché?
- Potrebbe organizzare una fuga.
- Giusto.
- Vuole qualche altra cosa al posto del telefono?
- Si certo: mi porti dei colori e dei pennelli.
- Sarà fatto.
Dipinsi una parete della cella: un panorama con il cielo azzurro, rondini in volo e tanti alberi.
Durante la notte, dipinsi una porticina in stile rococò su misura per me.
Feci appena in tempo a terminarla che i soldati entrarono nella cella
- Ha un ultimo desiderio?
- Si vorrei una maniglia d’oro zecchino.
- I miei carcerieri si guardarono perplessi, ma esaudirono la mia richiesta.
Mi consegnarono una bella maniglia luccicante, adagiata su un cuscino damascato.
Con molta calma presi la maniglia, la guardai bene, ringraziai i signori che avevo di fronte con un inchino, appoggiai la maniglia sulla porta che avevo dipinto.
La porta si aprì ed io uscii richiudendola alle mie spalle, portando via la maniglia e lasciando i soldati bloccati nella cella con tanto di naso.

IL PAESE SENZA TEMPO

Il viaggio fu lungo ma piacevole finché, arrivati ad una stazioncina sperduta nella campagna non ci fecero scendere dal treno.
Un guasto nella linea ferroviaria costrinse i viaggiatori a rimanere bloccati in quel luogo sperduto per almeno quattro ore!
A quel punto io decisi di approfittare dell’opportunità di visitare il paese che si intravedeva dalla stazione.
Lasciai alle spalle il chiasso dei viaggiatori che protestavano per il disguido, e m’inoltrai nella pace di uno sconosciuto paese di campagna.
Notai di essere immersa nel silenzio più muto e inspiegabile che avessi mai conosciuto.
Non c’erano voci, neanche il vento, ma viali, giardini avvolti da un torpore indescrivibile.
Camminavo lungo le strade, i vicoli, senza incontrare anima viva.
Se mi fossi perduta a chi avrei domandato aiuto?
Avevo comunque la sensazione di essere spiata...ma da chi?
Nessuno mi guardava, anche da dietro le finestre socchiuse non mi pareva ci fosse nessuno.
Vidi un auto ferma al semaforo: l’autista stava immobile con gli occhi fissi.
Vidi un altro personaggio che chiudeva la saracinesca di un negozio, bloccato in quell’azione come una statua di cera.
Mi venne la curiosità di toccarlo, lo toccai: sembrava fatto di marmo per quanto era irrigidito!
Vidi poi un cane sdraiato sotto un albero, due gatti: uno bloccato nell’atto di miagolare, l’altro nell’azione di lavarsi.
In quel panorama di immobilità un qualcosa che si muoveva lo scovai.
Il fumo di una pipa.
Trovai un signore anziano accomodato su una panchina a fumare con piacere. Chiaramente mi avvicinai a lui e gli chiesi se abitava lì.
Mi rispose che quello era si il suo paese, ma che ormai era impossibile viverci. Dopo ciò che era accaduto né lui, né nessun altro  poteva abitare là.
Mi rivelò che lui era l’unico superstite dato che il giorno che accadde il fatto non era presente ma era partito per andare a trovare la nipote.
Gli domandai, curiosa più che mai, cosa fosse accaduto.
L’uomo mi rispose che un paio di anni prima in quel paese alle ore 14,15
il tempo finì.
Il tempo era terminato, scaduto , non c’era più.
Non c’era più tempo per sbadigliare, cucinare, aprire un giornale, chiudere le porte, per respirare.
Niente aveva più il tempo, quindi tutto si era bloccato all’ultimo istante in cui il tempo era scaduto.
Fu così l’immobilità assoluta.
Questo signore ormai abitava in città, quando poteva, ritornava nel luogo dove era nato e cresciuto.
La nostra conversazione venne bruscamente interrotta dal rumore di ferraglie,
mi voltai verso quel fracasso e vidi, da una traversa del viale, spuntare il treno.
Dalla locomotiva il conduttore mi strillò:
- Signorina! Vuole salire? Stiamo aspettando tutti lei!  

IL BAR

Entrai nel bar per respirare un po’ di sana aria viziata e fuggire dal caldo e dall’umidità, che quella mattina erano insostenibili.
Il bar era grande, con belle poltroncine dove mi accasciai più morta che viva. Avvertivo la presenza di altra gente: intravedevo sagome antropomorfe, una di queste mi ronzò intorno sibilando qualcosa verso di me (con il senno di poi capii che si trattava del cameriere, che mi domandava cosa ordinavo).
Io sbiascicai delle vocali e delle consonanti, che involontariamente formularono una risposta a me sconosciuta.
L’ombra tornò poco dopo porgendomi un bicchiere lungo e stretto, colmo di un liquido rossastro, trasparente con un coso colorato appoggiato sopra.
Presi il bicchiere, mi accorsi che era freddo, in meno di ¼ di secondo ingurgitai quel liquido...rifiorii!
Finalmente potevo mettere a fuoco quello che avevo intorno.
Avevo bevuto un semplice tè freddo, decorato con un grazioso ombrellino di legno e stoffa colorata, simile agli ombrellini cinesi.
Il bar era molto elegante, arredato in gran stile!
Pieno di specchi, impreziosito da lampade di vetro dipinto;
il tutto dava un senso di luce e di trasparenza vivificante.
Una grande vetrata si affacciava sulla strada, che bruciava per il caldo quasi equatoriale!
Fornitissimo di pasticceria, l’aria era profumata di tè e crema...delizioso!
Il mio sguardo roteava rilassato osservando tutti i particolari architettonici.
Finchè non incrociai gli altri clienti.
Le mie palpebre si spalancarono, le pupille si dilatarono, il fiato si bloccò a metà trachea!
Quel bar era popolato da strani esseri!
Sembravano si, uomini, donne, bambini o vecchi, ma il loro aspetto era a dir poco curioso.
Possedevano tanti occhi dalle forme più diverse e con tanti colori;
nasi penzolanti o schiacciati, o a punta e lunghissimi; braccia tentacolari agitate da un moto perpetuo.
I colli si allungavano o si ritraevano con movenze sinuose, come fossero di gomma.
Guance cadenti, mento spigoloso...le orecchie poi!
Erano disponibili in un catalogo ricco di forme e dimensioni!
Questi tipi (del tutto indifferenti al loro aspetto) conversavano amichevolmente tra di loro, mentre i loro corpi emanavano fasci di luce simili ai raggi di Sole,
creando intorno a loro un alone luminoso e caldo.
Il cervello mi andò in fumo, non capii più niente.
Mi alzai violentemente in piedi e mi precipitai alla porta per uscire da lì, ma non mi ritrovai in strada, ma di nuovo nel bar.
Aprii una seconda porta, oltrepassai anche questa, ma mi ritrovai nel bar.
Provai con la porta dello sgabuzzino, con la porta che dava verso il piano inferiore...niente da fare, mi ritrovavo sempre al punto di partenza.
Insomma dov’era l’uscita?!
Ero così nervosa che tentai ancora: mi ritrovai nuovamente nel bar.
Questa volta popolato da unità carbonio con l’aspetto di banali e rassicuranti esseri umani, che non emanavano nessuna luce.
la mia attenzione cadde su uno dei divanetti, mi riconobbi subito.
Stavo stravaccata e sudata, con il bicchiere di tè appoggiato sulla guancia, mentre con una mano mi sventolavo tediosamente mormorando:
- Che caldo, che caldo, che caldo, che caldo...

L’ECO COSMICO

Il mio umore era davvero pessimo.
Passavo le giornate a scaricare i miei nervi in chilometriche passeggiate.
Quel giorno, in particolare, dovevo avere un’espressione alquanto arcigna, perché un corteo di auto scure si fermò, e da una di queste auto una signora mi chiamò ad alta voce:
- Dove vai in giro con quella faccia?
Io la guardai piuttosto male e proseguii la mia marcia.
- Sembri uno spaventapasseri in vacanza! - continuò la signora - vieni con noi piuttosto!
- E dove andate? - domandai
- Da nessuna parte, siamo già stati, ora torniamo.
La signora aprì lo sportello dell’auto ed io montai su.
Il corteo ripartì immediatamente.
La macchina era enorme, spaziosissima, con autista e 8 persone sedute intorno
ad un tavolino colmo di pasticcini, pizzette e abbeveraggi vari.
- Cos’è una festa? - chiesi
- No, un funerale - mi fu risposto da uno dei presenti.
Mi venne da ridere, perché malgrado l’atmosfera festosa era evidente che mi era stato detto il vero.
Le auto del corteo erano tutte nere, come neri erano gli abiti di chi abitava quelle auto, non mancavano neanche i soliti cuscini e corone di fiori.
Un funerale si, ma davvero allegro.
Tutti ridevano, brindavano, cantavano, neanche fosse Capodanno!    
- Una bella compagnia la vostra - dissi
- Ti scandalizza vedere festeggiare un morto?
- No.
- Com’è che te ne vai in giro con una faccia da ammazzasette?
- Forse non ho morti da festeggiare come voi.
- Ma noi siamo sempre felici...Voglio rivelarti un segreto.
Allora la signora estrasse dalla sua borsetta una graziosa scatolina di velluto blu, decorata da piccoli specchi rosa.
Me la porse ed io l’aprii.
- Cosa vedi?
- Niente è un cofanetto foderato di specchi.
- Soffiaci dentro.
Io soffiai.
Un densissimo fumo blu si liberò, dalla scatola vuota, che mi isolò da tutto.
Avvertii un risucchio, come un gigantesco sottovuoto che mi catturava.
In pochi secondi di vortici e forti correnti, tutto sparì.
Intorno a me non c’era più niente.
Mi trovai a vivere...Anzi ad essere il nulla: a parole è indescrivibile, perché cosa c’è da descrivere in qualcosa che non c’è, dato che niente c’era!
Neanche io c’ero, neanche il corteo, né la scatola con gli specchi, né l’aria, né la terra, né il buio, né la luce, né il cielo...Non c’era proprio niente!
Sentii l’eco di una risata che si avvicinava.
Riconobbi il viso della signora che mi aveva trascinato in quell’avventura.
Riconobbi anche il mio respiro e le mie mani: mi trovavo distesa su qualcosa di solido con la signora sorridente china al mio fianco.
Sentivo la sua voce riverberata e confusa che mi diceva:
- E’ tutto finito, tutto è finito da un pezzo! Noi viviamo nell’eco di ciò che è stato. Il passato ed il futuro, sono esistiti ed esauriti. Quello che credi sia la realtà è solo l’eco che ritorna. Vivi la tua storia dimenticandoti di te, perché qualunque ansia non ha significato. Tutto è già stato svolto. Come la felicità e la sofferenza, la vita è finita...Siamo solo l’eco di ciò che è stato...
Avevo sentito parlare di una teoria del genere chiamata più o meno
L’eco cosmico, in circostanze come quella in cui mi trovavo, poteva sembrare particolarmente credibile.
- Non dovrei preoccuparmi di niente...Di cosa dovrei soffrire se è già accaduto tutto...- continuai a ripetermi meccanicamente.
Mi ritornò di colpo il buon umore.
Scoppiai in una fragorosa risata.
Risi tanto da dover chiudere gli occhi per il dolore alle guance ed alla pancia.
Quando li riaprii, intorno a me era cambiato tutto.
Stavo sdraiata sull’asfalto sotto il muso di una grossa auto scura, con i finestrini traboccanti di fiori.
Vicino a me c’erano due tizi: un signore (dato l’abbigliamento doveva essere l’autista), ed una signora.
Allarmati mi domandarono se mi ero fatta male.
Spiegarono ad alcuni passanti che ero comparsa all’improvviso che non avevano fatto in tempo a frenare.
Io rispondevo ridendo come un’oca giuliva che stavo bene, che non c’era niente di cui preoccuparsi, perché io non esistevo, niente esisteva, noi non esistevamo, che tutto era finito, che tutto era un eco, ecc...ecc...
L’autista mi prese in braccio e mi caricò sull’auto.
Una bella macchina grande con 8 persone sedute intorno ad un tavolino coperto di fiori.
Intorno a me c’erano persone vestite di nero che piangevano.
- Ehi! Cosa piangi! - esclamai dando una pacca sulla spalla ad uno di questi, che mi rispose subito:
- Beata te che ridi!
- Ma dai! - continuai convinta - è solo un funerale!
- E per colpa tua ne stavamo per fare un altro! - mi rimproverò la solita signora che aveva un aspetto meno giocondo ma più severo - tu non guardi mai quando attraversi la strada?! - mi strillò - eppure il corteo è piuttosto lungo, avresti dovuto vederlo! Bella giornata oggi!
Chiese al suo vicino una sigaretta.
Questo dalla tasca della sua giacca estrasse scatolina di velluto blu decorata con specchi rosa...La riconobbi immediatamente:
- Ah! - esclamai gioiosa - E’ quella di prima! Adesso l’aprite esce il fumo blu e...puff!
Tutti si guardarono perplessi.
La scatolina venne aperta e vidi al suo interno 20 sigarette ben allineate.
Fui colpita da un’improvvisa nausea e da un forte dolore al fianco.
Gli eventi si accavallarono nella mia mente, mi accorsi che avevo dato per reali delle fantasie.
La signora mi abbracciò per tranquillizzarmi:
- Ti stiamo portando all’ospedale, vedrai che fra pochi giorni starai meglio.
Così fu: venni ricoverata per una contusione al fianco, causata da un incidente automobilistico a carico di un’auto del corteo funebre che non aveva rispettato le strisce pedonali.
Lo shock delirante venne attribuito allo spavento che avevo avuto nel vedermi investita.
Pare che rimasi svenuta per alcuni minuti, un po’ troppi a sentire i medici.
Ma nessuno riuscì a spiegarmi come avevo fatto a riconoscere la scatolina delle sigarette.

L’ARMADIO MAGICO

Un vecchio falegname lavorava in una bottega situata nella piazza centrale di una grande città.
Non era la solita botteguccia piccola, folcloristica, da turista curioso, ma assolutamente anonima, tanto anonima che ai miei occhi sempre in cerca di cose originali passò del tutto inosservata.
Fu un massiccio trono di legno scuro che giganteggiava nella vetrina ad attrarre la mia attenzione.
Entrai nella bottega e chiesi se quel trono fosse antico.
Il falegname (un vecchietto simpatico) mi rispose che si trattava di un pezzo di antiquariato risalente al 16 sec., e che lo stava restaurando.
Gli artigiani hanno molti pregi: sono affabili, chiaccheroni, uniscono il loro senso artistico ad un notevole senso pratico.
Questo personaggio aveva arte, gusto ed ironia da vendere!
Rimasi volentieri nella sua bottega ad osservarlo lavorare.
Lui non solo restaurava, ma costruiva mobili, un tempo (mi riferì) costruiva modelli di elettrodomestici e automobili: questi modelli venivano poi consegnati ad ingegneri ed architetti e successivamente riprodotti con le eventuali correzioni.
Mi piaceva ascoltarlo parlare, forse troppo...
Ero così presa dai suoi discorsi che appoggiandomi ad un tavolo immersi inavvertitamente una mano in una vaschetta contenete un liquido denso e appiccicaticcio.
Mi ritrovai con una mano collosa e viscida, un vero schifo!
Il falegname divertito mi indicò la strada del bagno dove avrei trovato l’occorrente per pulirmi.
Nel retro bottega (lo devo dire: umido e sporco) trovai una porta con su scritto WC
Aprii quella porta e la richiusi alle mie spalle.
Mi ritrovai in una camera molto grande, completamente vuota, le pareti erano incorniciare da sedili in marmo, quadrati con un foro al centro.
Nella parete di fronte a me c’era una finestrella con sbarre di ferro arrugginito.
Alzai lo sguardo e mi persi in un soffitto alto almeno 40 metri, con una maestosa volta a botte.
Dal centro di questa partiva un misero filo che scendeva terminando con una squallida lampadina. Sotto la lampadina un grosso armadio in stile Van Der Velde, a due ante, chiuso da una piccola chiave.
Mi sentii persa, ebbi una lieve vertigine.
Credo rimasi imbambolata come un’allocca, poi focalizzai il tutto.
Mi trovavo in una sala di probabili terme romane e più esattamente nel gabinetto. 
Questa consapevolezza non mi aiutò più di tanto perché non vedevo niente che mi permettesse di pulire la mia mano, ormai completamente incollata!
Passeggiai su e giù per la stanza.
Passai dietro l’armadio, pensai di aprirlo, forse dentro c’era...che so: una fontanella, una doccia, un drago, un antico romano perduto nel tempo, un transatlantico! Qualsiasi cosa andava bene!
Non appena aprii le ante sentii una risatina buffa e allegra.
Dall’armadio saltò fuori un ometto verde, seduto su un pallone colorato, che cominciò a saltellare per tutta la camera.
Lui rideva beato e felice, mentre io portai una mano alla fronte e mi lasciai cadere seduta su un gradino su cui erano posizionati i sedili di marmo. 
Guardavo sconsolata quel personaggio che mi zompettava intorno declamando frasi e citazioni di tutti i tipi:
- Guardando i tuoi occhi così belli, ho visto belli anche i miei; il mare è salato; ringrazio la signorina che mi ha fatto uscire da quell’armadio puzzolente! Leggi un libro e leggerai te stesso; vorrei un brandy con latte e limone, grazie; a dire sempre la verità si rischia di essere scoperti; la Terra è un pianeta tondo tondo;
Amore amore amore: è la legge dei folletti, natura pace e amore! Sono io cretino e tutto il resto del mondo è un genio o io sono un genio e tutto il resto del mondo è cretino? IO sono un genio! Devo dire che mi trovo molto simpatico!    
E molte altre follie ancora!
Mentre lui parlottava apparivano ad intermittenza le immagini più strane e fantasiose che avessi mai visto.
Poi panorami, costellazioni, bambini che correvano, fiori, uccelli, cavalli al galoppo.
L’ometto verde (brutto e magro magro) continuava a declamare; mi sorrideva, strizzava l’occhio e mi lanciava bacetti. Io ridevo, mi divertivo come una Pasqua!  
Ero immersa in una girandola di colori fantasmagorica, di luci e forme geometriche dalle combinazioni infinite.
Finché di colpo, l’ometto non saltò nell’armadio che si richiuse subito.
Io mi ritrovai seduta sul ciglio del marciapiede; ridevo come una scema e tutti  i passanti mi  osservavano turbati, pensando fossi ubriaca.
Mi accorsi dai loro sguardi che mi trovavo per strada con alle mie spalle la vetrina delle falegnameria con tanto di trono esposto in vetrina, e la mia mano perfettamente asciutta e per niente appiccicosa.

I PRIGIONIERI

Passeggiavo placidamente nel parco.
Le nuvole preannunciavano un sonoro temporale, ed io, come al solito, non avevo l’ombrello.
Dal lì a poco iniziò una lieve pioggerellina che, evolvendosi, si trasformò in una vera e propria pioggia, ovvero: quella cosa formata d’acqua che, scomposta in gocce di una certa consistenza, scende dall’alto verso il basso, bagnando tutto ciò che trova nel suo percorso.
In quel percorso trovò me!
La mia pacifica passeggiata si trasformò presto in un’estenuante corsa per cercare un qualsiasi riparo.
Lo trovai presto: vidi un edificio nascosto nella vegetazione.
L’aspetto era poco rassicurante, sembrava piuttosto fatiscente.
Era una casa piccola con tre locali.
Io me ne stavo nel secondo vano, attiguo ad una camera che sarebbe stata completamente buia se non fosse entrata un po’ di luce da alcune crepe delle pareti.
Incuriosita decisi di esplorarla.
Ne valse la pena, non era decaduta e spoglia come le altre due stanze.
Il soffitto e il pavimento erano rivestiti da mosaici brillanti, sembravano d’argento e oro.
Le quattro pareti erano bianche, sembravano tinteggiate da poco, non erano lisce ma emergevano imponenti degli altorilievi.
Rappresentavano dei corpi umani sull’attenti alti due metri, avevano gli occhi chiusi con un’espressione malinconica, ma altera.
Mi accomodai a terra e buona buona, rimasi ad ascoltare il suono della pioggia.
Avvertii un ronzio alle orecchie: un tormentone ovattato, basso, continuo.
Alle mie povere orecchie ne feci di tutti i colori: le grattai, le chiusi, le tamburellai...
Divennero cianotiche e bollenti, ma l’importante era che smettessero di ronzare!
Capii solo dopo che le mie orecchie non ronzavano affatto, e che il suono che sentivo non era nemmeno un ronzio.
Si trattava invece di una cantilena, sommessa come una nenia, e mi accorsi che le labbra delle statue si muovevano leggermente.
Neanche a dirlo, saltai subito in piedi al centro della stanza, e realizzai di essere circondata da statue parlanti.
Capivo quello che dicevano: a turno, uno per volta, pronunciavano una frase e poi tutte la ripetevano in coro.
Parlavano piano, con dolcezza, ma le cose che dicevano erano così tristi che mi commossi. Sembrava si sforzassero di mantenere viva la loro cantilena.
Rimasi così coinvolta che chiesi loro cosa potevo fare per aiutarle.
Le statue mi risposero di guardarle negli occhi.
Così feci, e con un sincronismo eccellente tutte aprirono gli occhi.
Non avevano pupille, nè iridi, ma una luce accecante di un violetto insopportabile.
Le statue si liberarono dalla parete e corsero via.
Vidi trenta corpi bianchissimi correre sotto la pioggia, come in fuga.
Poi sparirono.  
Scomparvero nel nulla, lasciando nell’aria una polverina del colore dei loro occhi, che profumava di violetta.

IL SOLE E IL MARE
                                             
Era una giornata mite: né troppo calda né troppo fredda.
Il Sole era alto fra le nuvole chiare, parevano panna montata, linee d’aria sospese veli volanti.
C’ara un venticello dolce e l’atmosfera era piena di colori, di luci, di profumi.
Ripensavo ai giardini della Regina di Saba, ripensavo ai quadri simbolisti, ai canti della Bretagna, alle danze delle corti antiche.
La mia mente colma di sensazioni, di ricordi, di emozioni, tante innumerevoli: tutte in un attimo, in una frazione di secondo, s’inseguivano, si rincorrevano, si incontravano, in un turbinio di colori, di musiche e di voci, di poesie, di racconti di versi astratti, di sensazioni genuine, sempre nuove ma antichissime.
Sentivo il mio sangue correre nelle vene, nelle arterie, lo sentivo arrivare fino all’ultimo capillare delle più estreme periferie della mia pelle.
Sentivo vivere ogni cosa, intorno e dentro di me.
Ogni più piccolo ramoscello del mio sistema nervoso viveva.
Sentivo il mio cervello pulsare, agire pensare.
Lo sentivo stirarsi nella mia schiena, scendere tra le vertebre snodate e rilassate.
Sentivo il cuore battere, i polmoni respirare.
Sentivo le fibre dei muscoli e dei tendini.
Sentivo le ciglia, i capelli le unghie, accarezzati dal vento.
Ogni suono, ogni rumore, ogni musica, s’incanalava nei padiglioni ed entrava nelle orecchie a bussare sui timpani.
L’aria entrava nelle narici, entrava nella pelle e affondava fino al sangue.
Sentivo un’esplosione di vita intorno a me, dentro di me: vicino, lontano c’erano danze di cellule, di atomi che mi sfioravano, volavano o si appoggiavano su di me.
Io ero distesa sotto il Sole, sulla sabbia in riva al mare da diverso tempo, mai le mie ossa hanno amato tanto i raggi del Sole come in quel momento.
Tutto era straordinariamente bello e calmo.
Accennai un sorriso ed aprii gli occhi al Sole.
Qualcosa accadde, qualcosa di magico, di sensazionale, di meraviglioso.
Sentii i miei capelli allungarsi ed entrare nella sabbia.
Li sentivo allungarsi e scendere sempre più giù, sempre più in fondo.
Vidi i miei piedi e le mie gambe bagnarsi e sciogliersi nelle onde del mare.
I miei piedi e le mie gambe diventarono acqua, sempre più liquida, sempre più cristallina.
Sentivo le mie mani, le mie braccia, la mia schiena sgretolarsi.
Sentivo la sabbia avanzare su di me.
Mi sentivo sempre più di sabbia, sentivo di essere sempre più sabbia.
Il calore del Sole cominciò ad aumentare fino a bruciare, ma era un caldo bellissimo che mi inondava.
Il Sole scendeva penetrando nei miei occhi, mescolandosi al cuore ed ai reni, ai polmoni, alla sabbia, al mare, ed io salivo.
Non esisteva più il mio corpo, esisteva la mia ombra.
Io ero una luce abbagliante che saliva forte e fiera.
Io ero l’aria che si diffondeva dolce e magica.
Io ero mare, Sole, sabbia ed aria.
Ero le cellule, gli atomi che danzavano intorno a me.
Io ero i canti della Bretagna, i giardini della Regina di Saba, le danze delle antiche corti.
Io ero emozioni, ricordi, sensazioni, poesie.
Io ero musica, pittura.
Io ero in espansione in altri pensieri, in altri ricordi.
Salivo verso altri cieli, altri mondi.
Scendevo tra le radici degli alberi, nel fondo dei vulcani.
Navigavo sui fiumi e volavo con gli uccelli tra le nuvole.
Rotolavo sulla neve.
Scendevo con la pioggia, fino a trovare i cuori e le menti di altri uomini che mi vedevano distesa sulla spiaggia, a prendere il Sole.

IL RITORNO A CASA

Mi fu ordinato di riportare sulla nostra strada un compagno che si era perduto.
Ormai adulta, mi addentrai nel bosco e lo trovai disteso sotto un manto di foglie secche, ancora addormentato.
Gli tesi la mia mano e lui, forse inconsapevole, mi diede la sua in modo che io lo potessi tirare fuori da lì.
Le nostre mani si ritrovarono e si strinsero, io però non lo vidi mai alzarsi.
E’ vero che, comunque, lo portai a visitare i resti della nostra antica città.
Rimase sempre più indietro di me.
Lo osservai mentre guardava smarrito e incuriosito le pietre di un luogo che probabilmente non sentiva più suo.
Quella città da tempo distrutta, era tutta da ricostruire, ma quando mi voltai,
lui non c’era più.
Era di nuovo dormiente, coperto da quelle foglie morte.
Gli rimasi vicino, in silenzio, ad ascoltare il suo sonno.
Lo sfiorai e cercai un cenno che non arrivò.
Fui costretta ad allontanarmi da lui e da quel bosco.

ENTRO LA TERRA E’ LUCE

Mi colpì la sua lucentezza.
Brillava come un diamante.
Malgrado fosse celata dalle pietre e dall’erba spinosa la notai immediatamente.
Fu così che mi inginocchiai e scavai con le unghie la terra ed estrassi nella sua totalità quell’oggetto che mi aveva attratto.
Si trattava di una conchiglia, una conchiglia bianca e luminosa.
Trovare un oggetto del genere in montagna fa sempre un certo effetto.
La portai all’orecchio per sentire il classico rumore delle conchiglie, ma non era il rumore del mare che ascoltai, ma un coro di voci acutissime, così armonizzate da incantare, come il mitico canto delle sirene.
Affiorò poi una voce solitaria, dolce e flebile.
Si rivolgeva a me, ma solo quando il volume si fece più evidente capii cosa mi stava dicendo:
- Scava una buca profonda un metro, con le tue mani, seppellisci questa conchiglia e con il tuo sudore innaffia la terra che userai per ricoprire la buca.
Domani, quando il sole sarà alto, torna qui: avrai un regalo       
Feci tutto come ordinato; con una certa malinconia, perché pensavo di conservare in casa la conchiglia che avevo trovato.
Ricoprii la fossa e mi sdraiai a terra per riposarmi.
Andai via poco più tardi.
Il giorno dopo a mezzogiorno tornai sul posto e fui subito abbagliata da una luce accecante:
un albero di madreperla colmo di piccole conchiglie era cresciuto.



TRASPARENZE DI PIETRA